Il caso Gobbi e gli attacchi continui alla stampa

di Pietro Bernaschina, giornalista e membro di comitato ATG

Raccogliere le cicche, montare la panna senza la panna, pennivendoli al servizio della partitocrazia, petardi bagnati.

La stampa e i giornalisti nella Svizzera italiana sono sempre più spesso denigrati da parte della politica e quanto successo attorno al caso che vede coinvolto il consigliere di Stato Norman Gobbi ne è solo l’ultimo esempio.

Anche il presidente de Il Centro Fiorenzo Dadò, in Parlamento, ha denunciato questi attacchi.

Una denigrazione costante che ha lo scopo di togliere credibilità alla nostra voce, in un momento dove cospirazionismi e complottismi già spargono fiele sui media tradizionali. Dai più o meno piccoli gruppi sui social, il fastidio per una stampa che pone domande, che sottolinea incongruenze, che cerca di fare luce su fatti che riguardano chi ci governa, sta sempre più contagiando i politici. 

Come scriveva su Facebook qualche tempo fa la collega di Teleticino Claudia Rossi: “Porre domande non è accusare, non è scatenare shitstorm: è cercare la verità”.

Di questi tempi, però, sembra che in molti si siano dimenticati di quale sia il ruolo che hanno i giornalisti dentro una democrazia. Spesso si ha l’impressione che si confonda il nostro lavoro con quello di un ufficio di comunicazione, si vorrebbe che i giornalisti fungessero da servizievole megafono ai messaggi dei vari politici. Ma il nostro ruolo è un altro. Il nostro ruolo è quello di controllare il buon funzionamento dei poteri dello Stato.

Lo facciamo con serietà, seguendo le regole deontologiche, la legge e la coscienza. Lo facciamo dentro redazioni in cui ci sono controlli sulla qualità dei contributi. Lo facciamo con professionalità e quando sbagliamo lo diciamo e – se il caso – ne affrontiamo le conseguenze.

Proprio in nome di questa professionalità non possiamo cedere alle pressioni che arrivano un po’ da tutti gli schieramenti politici, non possiamo sottrarci al nostro compito, dobbiamo resistere a quella voce che di tanto in tanto ci sussurra: “lascia stare, chi te lo fa fare”. Lo dobbiamo ai lettori, al pubblico, all’opinione pubblica e – tutto sommato – lo dobbiamo a noi stessi.